ITALIA, 5 PROPOSTE PER FAR TORNARE GRANDE LA NAZIONALE

Il calcio italiano si riscopre nuovamente al punto di partenza. La pessima figura della Nazionale di Luciano Spalletti ad Euro 2024 ha denunciato una volta di più lo stato di profonda crisi attraversata da un movimento che, sia a livello di club che nelle grandi manifestazioni internazionali con la sua rappresentativa, non solo fatica a cogliere con continuità i risultati di prestigio del passato, ma a produrre un’identità di gioco e individualità in linea con la nostra tradizione.

Dopo due fallite qualificazioni ai Mondiali consecutive e un Europeo - da campioni uscenti - di livello bassissimo, mai come in questo momento è opportuno ideare soluzioni che, sia a stretto che ampio raggio, possano concretamente incidere. E creare i presupposti per un vero cambiamento culturale che vada oltre la semplice e indispensabile qualificazione ai Mondiali del 2026.

Queste sono i 5 punti che ci permettiamo di suggerire a chi avrà il compito di provare a rilanciare il calcio italiano e che, a nostro giudizio, sono essenziali per avviare la rivoluzione.

I NUOVI ITALIANI

Potrà mai permettersi la nostra Nazionale un Lamine Yamal o uno alla Nico Williams? Certo, è quello che ci auguriamo ma non con le normative attualmente vigenti nel nostro Paese. La politica, che spesso e volentieri utilizza lo sport come possibilità per fare propaganda spicciola e ottenere consensi, è l’unica che su questo tema - quello dei ragazzi arrivati come migranti in Italia e poi cresciuti, studiando nelle nostre scuole e integrandosi nella nostra comunità - ha l’opportunità di dare risposte concrete. E fornire pure al mondo del calcio nuove e preziose risorse. Ad oggi, fino al compimento dei 18 anni, non è permesso ottenere la cittadinanza italiana, precludendo così la chance di attingere magari a grandi talenti che a quel punto preferiscono difendere i colori di un’altra bandiera.

Oggi ne gode la Spagna, ma il discorso vale anche per Francia, Germania, Inghilterra e pure per realtà in prepotente crescita come Svizzera ed Austria. Dove parole come melting pot ed integrazione non fanno paura, ma vengono viste come opportunità.

LA RIFORMA DEI CAMPIONATI

Vogliamo i giovani, abbiamo bisogno dei giovani e di sempre più talenti italiani nelle nostre prime squadre. Ma è altrettanto importante iniziare a formare calciatori che siano effettivamente pronti a confrontarsi su palcoscenici ben diversi, per ritmi e qualità tecniche, a quelli dei campionati giovanili. L’esperimento delle seconde squadre, avviato dalla Juventus e seguito da Atalanta e Milan, va incentivato sempre di più perché rappresenterebbe l’ideale palestra per preparare i nostri ragazzi alle difficoltà del calcio dei professionisti.

Parallelamente, la tanto agognata e sbandierata riforma dei campionati, che il presidente federale Gravina non è riuscito a varare durante il suo doppio mandato, diventa necessaria per restituire valore in primis ad una Serie A che a 18 squadre aveva trovato la sua formula ideale in termini di equilibri e competitività delle sue partecipanti. Un cambiamento che, a cascata, dovrà riguardare necessariamente pure Serie B e C: 100 squadre professionistiche non sono sostenibili per un sistema in oggettiva difficoltà anche sotto l'aspetto economico.

UNA SERIE A PIU’ ALLENANTE

Si collega direttamente al punto precedente ed è un’altra questione divenuta annosa. Il nostro campionato non solo non produce e mette in mostra talenti di respiro internazionale, ma è da tempo una competizione non abbastanza probante per poi esprimersi ad alti livelli al di fuori dei nostri confini. E una delle ragioni è da imputare ai ritmi eccessivamente bassi a cui siamo abituati a giocare, anche per la tendenza dei nostri arbitri a spezzettare eccessivamente il gioco. Perdite di tempo, episodi di antisportività, falli di lieve entità che in Europa non vengono minimamente presi in considerazione e che non aiutano ad avere partite più intense e scorrevoli. Un’inversione di tendenza che porterebbe anche i calciatori a cambiare i loro comportamenti e ad abituarsi ad un tasso di agonismo differente.

TORNIAMO AD INSEGNARE A GIOCARE A CALCIO

Lasciamo perdere i soliti slogan sul calcio per strada, assolutamente demagogici e ormai fuori dal tempo. Ma il nostro movimento, dopo anni nei quali ha inseguito modelli alternativi finendo per perdere di vista l’essenza più pura del gioco, è bene che ricominci ad insegnare a fare calcio nella maniera più semplice. Senza inventarsi nulla. Un lavoro che deve partire necessariamente dai settori giovanili e dall’attività di base, che si concentrino coi loro allenatori nel far riscoprire la dimensione ludica di questo sport e l’importanza di impadronirsi e continuare a migliorare quei particolari che fanno realmente la differenza. La tecnica di base, che avrà sempre la meglio sulla tattica. Per affinare quella ci sarà sempre tempo.

E aggiungiamo pure un altro aspetto della preparazione che le nostre squadre sembrano aver perso di vista da diverso tempo: perché in Europa e nel mondo l’intensità delle nostre avversarie è sempre superiore? Dopo tanti anni di conclamate difficoltà, è giunto il momento di modificare qualcosa a livello metodologico e avvicinare quegli standard che nelle formazioni straniere sono la normalità. Allenamenti anche più corti ma svolti con un’intensità maggiore, per ricreare un clima da partita.

UN DECRETO CRESCITA PER GLI ITALIANI

Fece discutere l’introduzione nel 2019 di quel provvedimento che permise ai club italiani di tesserare allenatori e calciatori provenienti dall’estero grazie ad una tassazione privilegiata. Molti procuratori italiani e altri osservatori critici evidenziarono come, dietro il vantaggio di attirare più facilmente talenti stranieri, si nascondesse il lato oscuro della medaglia: precludere ulteriore spazio e opportunità a quelli nostrani. Una verità parziale, stando anche al dato relativo all’ultimo campionato di Serie A, disputato col 61,7% di giocatori stranieri. D’altro canto, se acquistare un calciatore da fuori costa infinitamente meno che puntare su un giovane italiano - che dopo 10 partite fatte bene vale non meno di 30 milioni di euro - come dare torto ai dirigenti di certe società? La soluzione potrebbe essere riproporre un Decreto Crescita, ma al contrario: visto che il ragionamento economico sembra essere l’unico ad animare i comportamenti dei club, perché non applicare degli strumenti che premino chi decida di puntare maggiormente sui prodotti dei propri settori giovanili o di quelli delle altre squadre italiane?

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